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Malattia di Lyme: epidemia negli Usa – e in Italia?

Prof. Marcello Negri

malattia-lyme-sintomiLa diffusione della malattia di Lyme viene definita – negli Stati Uniti – molto allarmante. Un autorevole quotidiano, il New York Times, fin da febbraio scorso è tornato più volte sull’argomento, nell’ultima l’autore (1) inquadra entro margini inquietanti la malattia: “si sta diffondendo nelle regioni medio-atlantiche, nord-orientali e del centro-nord intensificandosi in modo veramente stupefacente… la diffusione è in parte dovuta allo stato fuori controllo dell’ecosistema”. Riferisce di 30.000 casi l’anno e che se ne sospettano 10 volte tanti; precisa che negli ultimi decenni gli infettati sono quasi quadruplicati nel Michigan e decuplicati in Virginia.

In Europa (2), nell’ultimo ventennio sono stati riportati più di 360.000 casi; la massima incidenza –  tra 16 e 130/100.000 abitanti – si è verificata nella Repubblica Ceca, in Estonia, Lituania, Austria, Slovenia. In Italia, dove vige l’obbligo di notifica, l’Istituto Superiore di Sanità (3) riferisce che “nel periodo 1992-1998 si sarebbero verificati circa un migliaio di  casi… in Friuli Venezia Giulia, Liguria, Veneto, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige”. Probabilmente, ancora oggi la diffusione della malattia è sottostimata a causa del suo polimorfismo e della difficoltà a diagnosticarla. Infatti la vicinanza dell’Austria e della Slovenia, regioni ricche di boschi (specialmente di cervi che sono l’habitat ideale per le zecche) suggerisce di intensificare nel nostro Paese l’attenzione su questa condizione morbosa e sull’ecosistema dei nostri boschi e campagne.

Malattia di Lyme

Deve l’eponimo alla città di Old Lyme (Connecticut, USA) dove nel 1975 esplose una “strana” epidemia caratterizzata soprattutto da artralgie. Solo 8 anni dopo è stato identificato l’agente patogeno – Borrelia burgdorferi – che viene trasmesso all’uomo attraverso la puntura di zecche del genere Ixodes; i principali serbatoi del batterio sono gli animali selvatici (cervi, caprioli, volpi, lepri, roditori) forse anche il cane.

La malattia inizia circa una settimana dopo il morso della zecca,  in modo mutevole e intermittente, con un eritema migrante, spesso di forma anulare, che dura parecchi giorni; possono coesistere sintomi di un’infezione simil-virale, quali  artralgie, mialgie, rigidità nucale, cefalea, affaticamento, non sempre febbre. Il quadro sembra risolvere dopo 3-4 settimane, ma – nel 50-60% dei casi – recidiva per quanto riguarda l’impegno generale soprattutto a carico del sistema articolare e la comparsa di compromissione dei sistemi cardiovascolare e neurologico. Il quadro di persistente infezione può stabilizzarsi nel giro di mesi o anni se non si interviene con la terapia antibiotica. Proprio a quest’ultima è dedicato la presente nota.

Terapia antibiotica

Dopo una prima terapia antibiotica, nel 10-20% degli infettati possono residuare affaticabilità, artralgie, mialgie, disordini del sonno, perdita delle consuete funzioni mentali: si è parlato di sindrome post-trattamento o di cronicizzazione. Anneleen Berende et Al. (4) hanno condotto un trial randomizzato e in doppio cieco su 280 pazienti europei, presentanti questi sintomi persistenti attribuiti alla malattia di Lyme: tutti hanno ricevuto ceftriaxone in vena per 2 settimane prima di essere randomizzati in 3 gruppi: ciascun gruppo, poi, è stato trattato per 12 settimane con doxiciclina oppure claritromicina + idrossiclorochina oppure placebo. Dopo le prime 2 settimane (ceftriaxone) e dopo le 12 settimane (randomizzazione in gruppi, terapia o placebo) è stata valutata la qualità di vita riferibile alla salute. Dai risultati gli autori hanno concluso che “il trattamento antibiotico prolungato non ha prodotto un effetto benefico supplementare sulla qualità di vita riferibile alla salute al di sopra di quello ottenuto con il trattamento più breve”. M. T. Melia e P. G. Auwaerter (5), sullo stesso numero della rivista, pur rilevando diverse limitazioni, definiscono il lavoro “ben condotto” e utile in quanto esclude il vantaggio di un’antibioticoterapia aggiuntiva. Ritengono che sia giunto il momento per “una precisa ricerca di una diagnosi alternativa ad esempio nel campo dei disordini del sonno”. Secondo gli autori deve divenire chiaro che “quadri clinici cronici quali l’affaticamento e il dolore che affliggono milioni di persone nel mondo richiedono urgentemente risposte”.

Commenti

Il New England Journal of Medicine si è aperto a ricevere commenti. Due sono centrati sull’affaticamento. Gary P. Wormser (6) fa notare che – in base anche ad altri studi clinici – il miglioramento riscontrato da  Berende et Al. probabilmente è da ascrivere all’effetto placebo. A. Berende risponde dichiarandosi d’accordo e aggiunge che l’effetto placebo potrebbe riguardare anche il miglioramento degli altri sintomi soggettivi. Stefan Erb et Al. (7) riferiscono che “anche nella loro esperienza un trattamento antibiotico prolungato non ha avuto effetti migliorativi sulla sintomatologia”; inoltre ritengono che un terzo dei pazienti di Berende et Al. abbiano ricevuto una diagnosi errata di malattia di Lyme. Questa osservazione secondo Berende è “non giustificata”. Certamente molti quesiti e l’evoluzione dell’epidemia potrebbero essere risolti dall’acquisizione di un vaccino. Stanley A. Plotkin (8) che nel 2011 aveva definito sull’autorevole rivista Clinical Infectious Diseases un fiasco della sanità pubblica la mancata produzione di un efficace vaccino contro la malattia di Lyme, oggi afferma a questo proposito: “fortunatamente, il futuro sembra ragionevolmente sereno”.

Bibliografia

  1. Moises Velasquez Manoff. A natural cure for Lyme disease. New York Times, 20 august 2016.
  2. WHO – European Centre for Disease Prevention and Control. Lyme borelliosis in Europe. http:/ecdc.europa.
  3. www.epicentro.iss.it >salute e animali > zecche. Aggiornato a maggio 2015.
  4. Anneleen Berende et Al. Randomizes trial of longer-term therapy for symptoms attributed to Lyme disease. N Engl J Med 2016, 374, 1209.
  5. Michael T Melia, Paul G Auwaerter. Time for different approach to Lyme disease and long-term symptons. N Engl J Med 2016, 374, 1277.
  6. Gary P Wormser. Longer-term therapy for symptoms attributed to Lyme disease. N Engl J Med 2016, 375, 997.
  7. Stefan Erb et Al. Longer-term therapy for symptoms attributed to Lyme disease. N Engl J Med 2016, 375, 997.
  8. Stanley A. Plotkin. Need for a new Lyme disease vaccine. N Engl J Med 2016, 375, 911.

Rallentare la progressione delle complicanze del diabete: possiamo sperare

Prof. Marcello Negri

diabete-700x336Il  7 aprile scorso si è svolta la Giornata Mondiale della Sanità (WHO) dedicata questo  anno al diabete, una delle più importanti cause di morte e di disabilità nel mondo, la cui diffusione ha suscitato il paragone con quella dell’AIDS. Di recente, iI suo continuo aumento ha ingenerato grosse preoccupazioni anche per la tenuta dell’economia dei Paesi.

 

Impegno editoriale de The Lancet

The Lancet,  pressoché in contemporanea, ha pubblicato due importanti relazioni della NCD Risk Factor Collaboration (NCD-RisC), una rete di scienziati della salute di tutto il mondo, che raccoglie dati rigorosi e tempestivi sui maggiori problemi sanitari. Un articolo (1) riguarda la diffusione del diabete: gli autori sulla base di 751 studi clinici, per un totale di 4,4 milioni di partecipanti, hanno calcolato che tra il 1980 e il 2014 i diabetici sono quadruplicati; negli adulti di sesso maschile l’aumento della prevalenza standardizzata secondo l’età è stato del 100%, in quello femminile del 60%. Nel 2014, nel mondo, 422 milioni di persone sono risultate affette da diabete; in alcune zone del Pacifico il 31% degli uomini e il 33% delle donne, contro il 6 e l’8% rispettivamente nell’Europa occidentale. Una tendenza che solo pochi Paesi  potranno constatare di avere fermato entro il 2025; in quell’anno i diabetici potrebbero essere 700 milioni.  L’altro articolo (2) riguarda la diffusione nel mondo della obesità che – nei soggetti geneticamente predisposti – è la causa principale del diabete tipo 2 (dell’adulto), 80-90% di tutti i diabetici. Dall’esame di oltre 19 milioni di partecipanti di 200 Paesi, gli autori concludono che “se continuerà l’attuale tendenza, per il 2025 l’obesità colpirà il 18% degli uomini e il 21 % delle donne, in forma grave l’8% degli uomini e il 9% delle donne”.

Partendo dai suddetti dati, Etienne G. Krug (3) ha lanciato l’allarme: “Va contrastato il diabete tipo 2, la obesità e il sovrappeso… mediante la gestione del diabete nei servizi essenziali inclusi nella copertura generale della salute”.

Si merita di aggiungere che nel nostro Paese, la copertura fornita dai medici di base su tutto il territorio nazionale e la rete dei Centri antidiabetici possono adempiere molto bene a  questo compito. Sulla stessa linea si pone l’editorialista della stessa rivista (4): si tratta di una “epidemia… che necessita di una azione immediata per evitare l’intensificarsi di un disastro sanitario”. Inoltre, l’autore  annuncia la costituzione di una commissione ad hoc formata  da The Lancet e dall’Università cinese di Hong Kong.

 

É possibile curare le complicanze del diabete

Come è noto, morte e inabilità a causa del diabete sono strettamente legate all’evoluzione delle complicanze cardiovascolari  (macroangiopatia) e renali (microangiopatia). Non c’è dubbio che la prevenzione – basata sullo stretto controllo della glicemia con l’insulina, sulla dieta e sull’eventuale intervento di by-pass gastrico quando veramente necessario,  sullo stile di vita, soprattutto attività fisica –  è fondamentale.

Diversi trials riguardanti trattamenti farmacologici, ritenuti in grado di bloccare la progressione delle complicanze, sono stati portati a termine; altri sono tuttora in corso. I risultati di due sono stati pubblicati di recente.

Complicanze cardiovascolari. Steven P. Marso et Al. (5) hanno condotto un trial in doppio cieco, randomizzato: 9.340 diabetici tipo 2 con alto rischio cardiovascolare sono stati trattati per oltre 3 anni e mezzo con Liraglutide, agonista del peptide glucagone-simile (GLP-1)  che stimola il rilascio dell’insulina, oppure Placebo. Nel gruppo Liraglutide, rispetto a quello Placebo, gli autori hanno constatato un numero minore, statisticamente significativo, di morti per cause cardiovascolari e di morti per ogni causa; un minor numero, ma non significativo, di infarti non mortali, di ictus non mortaIi, di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco. In alcuni casi la sperimentazione è stata interrotta per eventi gastrointestinali.

Nefropatia diabetica. Christoph Wanner et Al. (6) hanno valutato in 4.124 diabetici tipo 2, con dimostrata compromissione cardiovascolare e un filtrato glomerulare minimo di 30 ml/min, il trattamento con Empagliflozim. Questo farmaco è un inibitore del cotrasportatore del glucosio-sodio (SGLT) che – impedendo il riassorbimento del glucosio e del sodio dal tubulo prossimale – riduce la glicemia e provoca una deplezione di sodio che, a sua volta, riduce il filtrato glomerulare del singolo nefrone (feedback tubulo-glomerulare che coordina il filtrato glomerulare e il riassorbimento di elettroliti) e così altera l’attività del  sistema renina-angiotensina attraverso la macula densa.  Empagliflozim appartiene ad un gruppo di sostanze note per determinare anche perdita di peso, abbassare i livelli dei lipidi e dell’acido urico sierici, ridurre gli stress ossidativi. Nei partecipanti al trial, gli autori hanno preso in esame l’andamento della macroalbuminuria e della creatininemia, il ricorso al rene artificiale e la morte per insufficienza renale. Concludono che i risultati mostrano “una più lenta progressione, statisticamente significativa, della nefropatia diabetica nei pazienti trattati con Empagliflozim rispetto a quelli che assumevano il Placebo”.

 

In realtà possiamo solo sperare

Sullo stesso numero del New England J. of Medicine,  Julie R. Ingelfinger e Clifford J. Rosen (7) hanno commentato i due studi clinici. Ricordano che Liraglutide e Empagliflozim appartengono a due gruppi di farmaci i cui componenti  in larga parte sono stati già sperimentati e si chiedono come mai nei due trials di cui sopra  si è giunti a risultati positivi mentre ciò non è avvenuto nel caso degli altri trials. Dopo una ampia disamina, gli autori ritengono  che “sebbene vi possono essere state differenze nei partecipanti che spiegano i risultati positivi nei due trials, queste differenze da sole non spiegano pienamente i risultati”, e concludono: “Ci troviamo con delle differenze che appaiono incoraggianti, ma non siamo ancora ad una marcia trionfale riguardo alla gestione del diabete”. E dichiarano di sperare nelle future sperimentazioni.

 

Bibliografia

1.       NCD Risk Factor Collaboration. World wide trends in diabetes since 1980: a pooled analysis of 751 population based studies with 4.4 million partecipants. Lancet 2016, 387,1513

2.       NCD Risk Factor Collaboration. Trends in adult body-mass in 200 countries from 1975 to 2014: a pooled analysis of 1seicento98 population-based measurement studies with 19.2 million partecipants. Lancet 2016, 387,10026,1377.

3.       Etienne G Krug. Trends in diabetes: sounding the alarm. Lancet 6 april 2016.

DOI: http://dx.doi.org/10.1016/S0140- 6736(16)30163-5.

4.        Editorial. Beat diabetes: an urgent call for global action. Lancet 2016, 387, 10027,1483.

5.       Steven P Marso. Liraglutide and cardiovascular outcomes in type 2 diabetes. N Engl J Med June 13, 2016. DOI: 10.1056/NEJMoa1603827.

6.       Christoph Wanner et Al. Empagliflozim and progression of kidney disease in type 2 diabetes. June 14, 2016. DOI: 10.1056/NEJMoa1515920.

7.       Julie R Ingelfinger, Clifford J Rosen. Cardiac and renovascular complicatios in type 2 diabetes – Is there hope. June 14, 2016  . DOI: 10.1056/NEJMe1607413.